Da adolescente scrivevo molto. poesie e racconti per lo più. Alcuni racconti mi hanno dato una certa soddisfazione, nel senso che hanno vinto dei premi. Niente di eccezionale, eh? Premi locali, premi scolastici, ma quando hai 17 anni e trovi una lettera di complimenti da una giuria di professori il mondo sembra un posto migliore. Oggi spulciavo un po' tra le cartelle salvate del mio vecchio pc ed è saltato fuori questo racconto che scrissi più o meno tra il 2004 e il 2005. Non pretendo sia un capolavoro, ma ho gioito quando l'ho ripescato perchè questa storia nasce da un mio grande bisogno, quello di fissare e dare lunga vita ai racconti di mia madre e di mia nonna Sono sempre stata affascinata dal loro modo di raccontare, dalla loro capacità di creare aspettativa ed entusiasmo con la sola voce. Ecco, il mio obiettivo sarebbe quello di dare alla parola scritta la loro voce. Vi posto questo racconto, perchè da qualche parte devo pur cominciare, perchè ho deciso di mostrare quanto amo raccontare. Spero di donarvi qualche minuto piacevole
Due,
sessantatrè e settantanove
Carmine
era nato in un bel mattino di sole, verso le dieci, a Gennaio, due
giorni dopo l’Epifania. A Napoli era tempo di guerra, e la città
era percorsa da camionette militari, che pattugliavano la zona.
Nunzia, la sorellina, quella
notte era stata mandata via, dalla nonna, e aveva dormito nel suo
letto di legno scuro, sormontato da un Volto Santo con un cuore
luminoso.
<<La mamma deve
incontrare la cicogna>> le era stato detto. Aveva pianto e
protestato: la cicogna la voleva vedere anche lei.
<<Eh no, non si può>>-
le avevano risposto, in coro - << Altrimenti la cicogna non
viene più!>>.
Si era rassegnata, e,
continuando a singhiozzare, anche se un po’ di meno, aveva lasciato
che la nonna la portasse via, con la promessa che una volta a casa le
sarebbe stato preparato un bel bicchiere pieno di mele con lo
zucchero.
Per Rosa la notte fu lunga,
interminabile. Il dolore la piegò in due, le lacerò le viscere, e
all’alba le sembrava di aver messo sulle spalle cinque anni di più.
Il suo letto di nozze era fradicio e insanguinato, nonostante il gran
numero di stracci che aveva raccolto un po’ dalla sua dote, un po’
dalla colletta che avevano fatto le comari del vicolo.
<<In che tempi nasce
quest’anima di Dio!>> aveva esclamato la levatrice mandata a
chiamare in tutta fretta, alle nove di sera, mentre stava finendo di
cenare.
<<Povera creatura>>-
aveva ribadito ad una vicina di casa accorsa in aiuto -<< La
guerra, il padre che si arrangia a fare il fruttivendolo in mezzo
alla piazza…>>
Il parto non era stato
semplice. La levatrice, la “mammana”, come la chiamavano, ne
aveva visti di peggiori, ma questo la spaventava di più perché
avveniva all’inizio dell’ottavo mese, e lei sapeva che era
probabile che il bambino morisse.
Invece il bambino nacque, in
mattinata, e diede testimonianza della sua venuta con grida
perentorie, furiose.
<< Tiene ‘na bella
forza ‘stu criaturo!>> Aveva esclamato la donna, portando il
fagotto a Rosa dopo averlo lavato.
Piccolo era piccolo, aveva
costatato Rosa. La pelle era trasparente, come quella di una
lucertolina appena uscita dall’uovo, le dita sembravano fiammiferi,
i capelli quasi non ce li aveva. Baciò il suo bambino, già invasa
dall’amore per quella creatura talmente minuscola da poter esser
retta con una mano, e forse proprio il fatto che fosse così fragile
accentuò la sua emozione, e il cuore le si riempì di calore.
Antonio tornò dopo due
giorni. Era andato nell’entroterra per comprare la frutta e la
verdura da rivendere in piazza. Le vendite non andavano proprio
benissimo, ma ancora qualche gran signore non rinunciava a fare la
spesa, ed era suo cliente fisso. Tutto sommato riusciva a sbarcare il
lunario, e non poteva poi tanto lamentarsi. Aspettava la fine della
guerra per riprendere il suo lavoro, nella conceria.
Tornò che ormai era tutto
finito. Vide la moglie a letto, mentre offriva il seno al suo nuovo
bimbo, con accanto la piccola Nunzia che gli tormentava i piedini.
Avevano aspettato lui per scegliergli un nome. Antonio lo prese, e si
accorse con sconforto che era rachitico. Tuttavia tale fu la gioia
di avere il suo primo figlio maschio tra le braccia, che non poté
fare a meno di versare qualche lacrima.
Lo chiamarono Carmine, come il
nonno, il padre di Antonio. Anche Antonio del resto, aveva il nome di
suo nonno. Nella sua famiglia, in verità, le generazioni erano
scandite dal susseguirsi di vari “Carmini” e “Antonii”. I
cugini si chiamavano tutti allo stesso modo, e quando capitava una
riunione, era arduo districarsi in quel groviglio di omonimi.
Del nonno, Carmine aveva ben
poco: mentre l’uno era forte, tozzo, rubicondo, l’altro mostrava
già di essere esile, delicato. La testa pelata si era nei giorni
successivi al parto ricoperta di una peluria soffice e rada, di un
colore biondo tendente al rossiccio. Antonio aveva guardato con
sospetto la moglie per un po’, visto che quel bimbo non aveva
nessuno dei tratti della sua famiglia. Era una persona semplice,
l’innocenza del suo animo non era stata contaminata con la
conoscenza, per cui se solo lo avesse studiato, avrebbe saputo che
probabilmente nel miscuglio dei geni suoi e della sua donna ce ne era
uno risalente a chissà quale ramo della famiglia con le
caratteristiche del piccolo Carmine.
Ma
di tutto questo non si occupava, e gli bastò infine credere alla
moglie, alla sua fedeltà congenita, e al suo amore verso di lui,
consapevole anche che da quando erano sposati mai un momento era
rimasta sola, poiché o c’era la madre o c’era qualche zitella
del vicolo che le faceva perpetua compagnia, anche di notte. E del
resto, con gli occhi puntati che le comari avevano, certo una
mancanza non sarebbe loro sfuggita. E poi, le più vecchie tra loro
ricordavano perfettamente una prozia di Rosa, anch’essa di nome
Rosa, che era bionda e pallida come il nuovo arrivato.
Insomma,
il piccolo giallo si risolse entro le mura domestiche, senza
tragedie.
L’inverno
passò, tra raffiche di vento e pioggia battente. Rosa restò in casa
con Carmine e Nunzia. Siccome credeva che certe cose si dovessero
imparare prima possibile, e visto che non poteva scendere in piazza
ad aiutare il marito,ne approfittò per iniziare sua figlia alla
“religione della casa”. Nunzia aveva appena cinque anni,
ma Rosa alla sua età già asciugava i piatti alla mamma, con un
grembiule che le arrivava ai piedi, in bilico su uno sgabello, perché
era troppo piccola per arrivare alla tavola.
Si
era sposata giovane, Rosa. Aveva appena sedici anni quando si era
fidanzata con Antonio. Lui già lavorava alla conceria, aveva un
posto di lavoro apprezzabile, era conosciuto da tutti come un
ragazzo serio. Era alto e bruno, e la faceva ridere. Aveva una bella
voce, e quando si era dichiarato le aveva cantato una canzone
d’amore. Lei si trovava una sera, dopo cena, con le sue sorelle
attorno a un tavolo. Giocavano a carte, serene. La guerra non c’era
ancora, non se ne sentiva neanche parlare. Ad un certo punto, una
voce da un angolo della strada aveva intonato una canzone dolente.
Rosa si era mossa nervosamente sulla sedia: aveva riconosciuto quella
voce, era il ragazzo che vedeva quasi ogni giorno, quando andava nei
dintorni a consegnare le camicie e gli indumenti vari che la mamma
cuciva. La mamma, infatti, era sarta, e aveva una clientela
piuttosto nutrita.Confezionava abiti su misura e indumenti intimi,
rammendava e modificava capi di diverso tipo. Aveva anche imparato a
rivoltare i cappotti, pratica molto diffusa allora, perché un
cappotto costava troppo, e si cercava di farlo durare più a lungo
possibile. Rosa la aiutava quando poteva ad attaccar bottoni, a
cucire asole, ad accorciar pantaloni, e aveva ricevuto l’incarico
di andare a consegnare i lavori ultimati, cosa che faceva sempre più
volentieri, da quando si era accorta di richiamare l’attenzione di
un giovane che quasi tutti i pomeriggi, dopo il lavoro, si ritrovava
con gli amici al bar poco lontano da casa sua.Ogni volta che
passava, aveva sempre uno sguardo gentile, o una battuta spiritosa
per lei, che faceva finta di non essere per niente interessata. Un
giorno l’aveva fermata, e le aveva chiesto con un sorriso se poteva
invitarla a fare una passeggiata.
<<
Esco solo col fidanzato mio.>> aveva risposto Rosa.
<<Ah…>>-
aveva ribattuto lui, visibilmente deluso - <<Siete fidanzata?>>
Rosa
si era divertita a farlo soffrire qualche secondo, e poi gli aveva
risposto di no. Allora lui era ritornato alla carica, e l’aveva
seguita a pochi passi dalla porta di casa. Le assicurava che era un
bravo ragazzo, e che aveva intenzioni serie. Rosa si era fermata, e
gli aveva risposto, con fare provocatorio :<< Mi fidanzo solo
con chi mi canta la serenata!>>. Non voleva sembrare troppo
arrendevole. La mamma le aveva sempre detto che doveva farsi
desiderare, e lei aveva buttato lì quella che le pareva una risposta
assurda. Non pensava che l’avrebbe presa alla lettera, ma solo che
avrebbe continuato a corteggiarla, o tuttalpiù rinunciato. E invece
lui si era recato sotto la sua casa con alcuni amici, e le aveva
dedicato una serenata così romantica, che le era sembrato di essere
la protagonista di uno di quei film stranieri che ogni tanto le
capitava di vedere al cinema, o alle proiezioni del circolo
parrocchiale. Tutti i vicini si erano affacciati alle finestre o ai
balconi. Le sorelle l’avevano invidiata ferocemente. Finita la
canzone, Antonio si era presentato a suo padre, e dopo averlo
rassicurato sulla sua posizione e integrità morale, aveva chiesto la
sua mano.
In
poco meno di sei mesi si erano sposati. I suoi genitori non avevano
voluto correre i rischi di un fidanzamento lungo.Troppo sospetti
infatti erano gli sguardi che i due innamorati si lanciavano da
un’estremità all’altra del tavolo, durante le cene. Una sera il
padre l’aveva sorpresa avvinghiata al fidanzato, le labbra
incollate alle sue. Era un tipo all’antica, e non tollerava tali
spettacoli. Prima che potessero mettere in pratica quello che i loro
corpi giovani e appassionati suggerivano, avevano fatto in modo di
accelerare i preparativi. Qualcuno della famiglia aveva tentato di
far notare loro che era inutile correre a quel modo, che quello non
era un matrimonio riparatore.
<<Meglio
correre adesso senza motivo, che correre dopo con un motivo>>
avevano risposto. Non faceva una grinza, in effetti, e i consigli
improntati alla calma cessarono di essere espressi.
Rosa si era sposata, così, in
Giugno, nella sua parrocchia, con il vestito che le aveva cucito
apposta la mamma, un vestito dallo strascico lungo, candido, come
aveva sempre desiderato. Si era ritrovata ad essere madre a neanche
diciott’anni.
Le
era servita molto l’iniziazione precoce alla cura della casa, e per
questo aveva deciso di istruire Nunzia, che dal canto suo non si
tirava indietro. Per lei era come un gioco, e quel suo fratellino era
come un bambolotto, anzi, più divertente di un bambolotto, perché
era vivo, si muoveva, piangeva lacrime vere e faceva davvero la pipì.
In quei mesi contribuì al suo bagnetto, aiutando la mamma a
insaponargli la schiena. Ebbe anche modo di imparare ad impastare,
cosa che le piacque tantissimo, soprattutto quando scoprì che la
pasta messa a lievitare si gonfiava, si gonfiava… come un pallone!
E poi, presoci ormai gusto in queste cose, cominciò a pregare la
mamma di farle stendere le lenzuola all’aria. Ovviamente non
poteva, le lenzuola erano troppo grandi per essere stese da lei, ma
la mamma l’accontentò, facendole stendere gli indumenti del bimbo,
più piccoli e maneggevoli, su di una corda che lei stessa preparò,
adatta alla sua altezza, messa sul lato più riparato della casa, tra
i braccioli di due vecchie sedie. Piccole cose ancora, ma Rosa sapeva
che già così si avviavano le bambine ai mestieri di casa. Cosa
secondo lei indispensabile perché trovasse un giorno la felicità
coniugale.
L’inverno
passò, e Carmine crebbe. Era sempre piuttosto piccolo, ma si era
fatto proprio un bel bimbo. Il viso, da sfilato e sottile, era
diventato tondeggiante e roseo. I capelli si erano schiariti ancora,
e avevano cominciato a disporsi variamente sulla fronte in tanti
piccoli riccioli. Gli occhi nocciola erano bordati lungo l’iride di
una linea che tendeva al verde scuro. Nonostante le miseria, sembrava
chi il latte di sua madre fosse ricco e nutriente per lui. Gridava
disperatamente se non lo nutrivano a cadenze regolari, ed era uno
spettacolo guardarlo mentre succhiava, gli occhi semichiusi, una
manina sul viso. La sua espressione di beatitudine dopo la
poppata,poi, sarebbe stata da incorniciare.Sorrideva a tutti con la
boccuccia sdentata, e ormai mezzo vicinato si era innamorato di lui,
assediava la casa di Rosa, impegnandola in discussioni interminabili,
andava e veniva, si contendeva il privilegio di prendere il piccolo
in braccio. “L’angiulillo”, l’angioletto, lo
chiamavano, e a volte anche “o’ Tedesco”, il Tedesco,
per via della sua capigliatura chiara. Rosa si adombrava quando
sentiva queste cose e rimproverava subito chi lo chiamava così; i
Tedeschi assediavano Napoli, e a volte passavano anche nel loro
vicolo. Un’affermazione del genere sarebbe potuta essere presa per
vera, ed era noto che quegli stranieri avevano distrutto case per
molto meno. Erano un popolo che non si sapeva come prendere; un
momento prima ti sembravano amici, un momento dopo ti assalivano. Una
minima cosa poteva urtarli e far loro cambiare atteggiamento.
Era
giunto ormai Maggio, e Rosa ritenne che facesse abbastanza caldo, e
che poteva tornare in piazza e far vedere un po’ di quel mondo
variopinto al suo bambino. Il sole aveva riempito le campagne delle
primizie primaverili, e i ciliegi grondavano di frutti tondi e
succosi. Il clima di quell’anno era stato eccezionale , e Antonio
era tornato dal suo viaggio carico di frutta e con una graziosa cesta
da usare come culla per far dormire Carmine, e come modo per
trasportarlo con loro al mercato.
In
estate la piazza era più affollata. Nonostante la guerra continuasse
ad esserci, si cercava di dimenticare, di far finta che non ci
fossero militari armati in strada, di evitare di pensare al fatto che
i bombardamenti potevano avvenire da un momento all’altro, insomma,
di fare ancora quello che era possibile per illudersi che tutto fosse
normale. C’era poco da stare allegri, però: ormai si viveva solo
di quello che le campagne producevano: la primavera aveva portato una
buona rendita, ma l’inverno era stato trascorso tra gli stenti, con
pochi prodotti, poca frutta e verdura. I rifornimenti dall’esterno
erano quasi completamente tagliati, si poteva cercare qualcosa di
contrabbando, ma era costoso, e anche pericoloso, perché bisognava
incunearsi in vicoli di dubbia fama, e trattare con gente che fino al
giorno prima era stata pezzente come te e che ora, con un ghigno
crudele, gestiva a prezzi da usura generi di prima necessità.
Antonio
era stato fortunato, perché, intraprendente com’era, non si era
fatto scoraggiare dalla chiusura della sua fabbrica.
<<Quando
finirà la guerra, se ci saremo ancora tutti, la fabbrica riaprirà
e il posto sarà tuo. Intanto, vedi di fare qualcosa per
arrangiarti>> gli aveva detto il suo capo. E Antonio si era
rimboccato le maniche: dopo aver costruito un carretto, aveva fatto
il giro delle campagne, e con quei pochi soldi che aveva da parte
aveva comprato la prima partita di frutta.
Si
era creato una sua clientela, perché in fin dei conti era un uomo
onesto, e quel poco che vendeva lo vendeva a un prezzo giusto. Il suo
scopo, del resto, non era arricchirsi –non avrebbe potuto neanche
se avesse voluto-, ma sopravvivere fino alla fine della guerra. Che
sembrava interminabile. La sentiva con mano, quando udiva la sirena
dell’allarme, e si doveva rifugiare con moglie, figli e compagni di
sventura nei sottoscala, mentre gli aerei militari passavano sopra
alle case, facendo tremare i muri. Qualche volta bombardavano,e
allora l’angoscia lo prendeva , per l’ansia di sapere se tra le
case abbattute c’era anche la sua.
Antonio
conosceva bene quella sensazione, e sperava che la guerra finisse
presto, perché i suoi figli dimenticassero in fretta. Intanto,
attirava i passanti con la sua bella voce, cantando canzoni
spiritose, a volte un po’ maliziose… era il più amato in
piazza. L’aiuto di Rosa era prezioso per lui. Aveva avuto il
privilegio di vederla diventare ancora più bella di come era a
sedici anni. La maternità le aveva infuso dolcezza nello sguardo e
nel sorriso, che ora splendeva sul suo viso come il fuoco di un
camino, caldo ed avvolgente.
Amava
stare in strada durante il giorno. Il sole tiepido scaldava le pietre
e il vento leggero trasportava l’odore del mare vicino. In quelle
giornate si dimenticava la fame, la povertà, la guerra, tutte le
miserie umane. Nunzia giocava con dei micini appena nati, e Carmine
sonnecchiava beato nella sua cesta, tra la cassa di ciliegie e quella
di lattuga.
<<Questo
è il maschio, il campione della casa, eh, Antonio?>> aveva
notato un giorno l’ avvocato Castiello, uno dei clienti più
assidui di Antonio.
<<Si,
dotto’. Avete visto quanto è bello ‘ o figlio mio?>> aveva
risposto lui, compiaciuto.
<<Non
ti vantare tanto Antonio! Ha preso dalla mamma…>>
<<Eh,
si sa. La bellezza dalla mamma… Però qualcosa da me pure l’ha
preso…>>
<<Sempre
il solito burlone! Va bè, dai, che vado di fretta. Mia figlia è
venuta a trovarmi oggi da Milano col marito. Ha detto che aveva
voglia di ciliegie.>>
<<Pronte
per voi! Mica vogliamo fare aspettare la sposina! Non sia mai, può
essere incinta! E se poi ‘o criaturo vene cu ‘a voglia… a’
colpa nun sarrà mia!>>
<<Eh,
magari!Amen! Mi piacerebbe diventare nonno! Ti saluto Antonio. A
domani, se Dio vuole.>>
Quella
giornata si era chiusa con un guadagno discreto, giusto la somma che
permetteva di fare un po’ di provvista per qualche giorno e per
comprare in campagna dell’altra verdura.
Tutto
sommato stava andando bene, pensava Antonio. Anche se quello che
guadagnava gli bastava appena per sfamarsi, viveva sempre meglio di
tanti che non avevano proprio niente. E poi, visto che comprava
frutta e verdura in campagna, ogni tanto teneva per sé qualche
ortaggio per il brodo, o qualche primizia di stagione. Era ai limiti
della sopravvivenza, ma era felice. Felice per quella moglie che ti
tirava i baci dalla bocca, felice per la figlia che era una bambola
dai capelli neri, felice per il nuovo arrivato, il maschio, che aveva
fatto lui, proprio lui. A volte la sera rimaneva a guardarlo, mentre
dormiva, nella cesta. Gli sembrava quasi che fosse un sogno.Una notte
si era abbandonato sul seno di Rosa. Sentiva il cuore di sua moglie
che batteva regolarmente, il respiro che le faceva alzare e abbassare
il petto, il suo calore che l’avvolgeva. Non poteva credere di
essere arrivato a quel livello di gioia. Volle svegliarla, perché
non poteva fare a meno di farglielo sapere. Rosa si scosse, e lo
guardò, alzandosi al centro del letto, preoccupata che non si
sentisse bene. Lui le diede un bacio, lungo, caldo, la guardò nella
penombra, rischiarata debolmente da strisce di luce infiltrate nelle
persiane dalla strada. Non disse una parola, ma Rosa capì lo stesso
dai suoi occhi quello che stava pensando.
Anche
lei, nonostante le asprezze dei tempi, non avrebbe potuto chiedere di
più.
Si
era sposata per amore, e dopo quasi sette anni di matrimonio non
un’ombra aveva intaccato il rapporto col marito. Lo amava
profondamente. Non era una persona che esprimeva molto con le parole
i suoi sentimenti, ma tutto il suo corpo era un canto d’amore per
lui. In quel ciclone terribile erano riusciti a ritagliarsi
un’isoletta di serenità. E si sentivano benedetti dal signore,
privilegiati, in un certo senso, nei confronti di chi non conosceva
quella felicità così semplice e così assoluta. Eppure, dentro il
loro animo temevano sempre che qualcosa avrebbe potuto turbare il
loro equilibrio.
Il
“fatto” avvenne in uno dei primi giorni di Luglio. Il sole
picchiava forte, anche se era mattina. Nella piazza le grida dei
mercanti che tentavano di attirare clienti si accavallavano l’una
sull’altra, dando vita a un singolare concerto. Dalle ceste
facevano capolino le delizie di stagione. Antonio aveva una voce più
bella che negli altri giorni, Rosa instancabilmente riordinava gli
ortaggi e le pesche tonde e succose che erano arrivate fresche
fresche dalla campagna, e con un occhio guardava il piccolo Carmine
nella cesta, che tentava di mettersi un piede in bocca. Nunzia quel
giorno era stata affidata alle cure della nonna, perché aveva un po’
di raffreddore.
Fu
un attimo. La sirena suonò gettando tutti nel panico: gli aerei
stavano sorvolando la città. Rosa chiamò il marito che si era
allontanato in fondo alla piazza, il tempo di girarsi, e quando
guardò indietro la cesta era sparita. Carmine non c’era più. Rosa
cominciò a gridare disperatamente, facendo accorrere subito Antonio
e tutti quelli che erano vicino a lui. Come impazzita, era
impossibile sorreggerla. La sirena ricordava a tutti la necessità di
cercare un rifugio, ma non c’era verso di farla muovere da lì. Non
si sarebbe mossa, affermava, se non avesse ritrovato Carmine.
Gli
aerei si avvicinavano inesorabilmente. Antonio, come inebetito, non
sapeva risolversi a far qualcosa. Furono i suoi amici del mercato,
Giannino e Salvatore, che decisero per lui; Giannino si caricò
sulle spalle Rosa, che si dibatteva perché non voleva spostarsi, e
Salvatore si occupò di Antonio, che si lasciò guidare nel
sottoscala senza resistenza, con uno sguardo assente, simile a un
sonnambulo.
Stipati
in uno spazio di poco più di dieci metri quadri, Rosa e Antonio si
abbracciarono, lacerati dal dolore più che dalla paura del
bombardamento. Furono momenti terribili. Se uscivano potevano morire,
ma ad ogni minuto che passava diminuiva la probabilità di trovare
il bambino. Chissà, forse era in un vicolo, in mezzo a una strada,
possibile bersaglio delle bombe. Febbricitanti d’ansia, i due
attesero il passaggio degli aerei.
Il
bombardamento non ci fu, per fortuna. Le persone uscirono di nuovo
alla luce, con la sensazione di essere stati miracolati.
I
due genitori invece si sentivano maledetti, vittime di un destino
invidioso. La loro felicità era stata spazzata via in pochi attimi.
La prima cosa che fecero, una volta risaliti dal sottoscala, fu
quella di percorrere in lungo e in largo le strade circostanti. Ci fu
grande partecipazione, perché la scomparsa di un bambino destava
preoccupazione e rabbia. In piazza c’era la postazione dei
Carabinieri, che provvide a perlustrare la zona. Niente. Cercarono
senza sosta fino alla sera. Di Carmine nessuna traccia. Come avevano
fatto a farlo sparire così in fretta? Rosa non riusciva a
rassegnarsi. Passò la notte sveglia, a piangere, dondolandosi sul
bordo della sedia, mentre Antonio macinò il suo dolore con la testa
appoggiata al tavolo.
Il
giorno dopo, alle prime luci, ripresero la ricerca. Allargarono il
campo, cominciarono a fare domande, cercando di capire se ci fosse
stata una persona che avesse visto qualcuno con una cesta in mano.
Certo che avevano visto qualcuno con una cesta, si sentivano a volte
rispondere, ma mica potevano sapere cosa c’era dentro? Del resto,
con la confusione del giorno prima, non si era fatto molto caso a
quello che succedeva attorno.
Lo
sconforto li aveva ormai sopraffatti, ma non volevano, non potevano
pensare al peggio. Il vicinato li compativa per il grande dolore che
dovevano sopportare, e non aveva il coraggio di suggerire loro di
fermare le ricerche. Come si faceva a dire a una madre di non tentare
di ritrovare suo figlio? E così, anche se nel loro animo tutti erano
poco convinti dell’utilità della cosa, rovistarono ancora gli
anfratti più nascosti del circondario, e si spinsero anche in
periferia.
Passò
quasi un mese senza risultati. La rassegnazione non era possibile per
Rosa e Antonio, e nondimeno dovettero riprendere a lavorare. C’era
Nunzia che aveva bisogno di mangiare, e non potevano non pensarci. Il
sorriso però si era spento sui loro volti, e Antonio non cantava più
per attirar clienti. Ogni volta che qualcuno passava con un bambino
in braccio, loro aguzzavano gli occhi, sperando, pregando che fosse
il loro Carmine, e grande era la delusione nel rendersi conto di aver
sperato inutilmente. Nella piazza era conosciuta la loro sventura.
Ciascuno dei mercanti si sentiva anche un po’ in colpa per non
essere riuscito a vedere niente. Per burla del destino, mai come in
quei tempi gli affari andarono bene. Anche i clienti sapevano quello
che era successo, e se dovevano comprare qualcosa lo compravano da
loro, da quei poveri sfortunati genitori. Per Antonio tutto era ormai
irrilevante e privo di interesse. Lui e la moglie dormivano schiena
contro schiena, incapaci anche di piangere l’uno nelle braccia
dell’altra.
Una
mattina passò di lì l’avvocato Castiello. Era visibilmente
imbarazzato. Sembrava non sapesse cosa dire, lui, che delle parole
era considerato il re. Biascicò qualche frase di contrizione, che
Antonio accolse con un debole cenno.
<<Come
sta vostra figlia?>> chiese Antonio, nel tentativo di essere
più educato possibile. Sul volto dell’avvocato si materializzò
un’espressione fulminea, che scomparve subito, un’espressione a
metà tra il terrore puro e la vergogna.
<<Bene,
Antonio, grazie. Sei gentile e squisito come sempre.>>
Raccolse
il cartoccio con la frutta e, dopo aver fatto un saluto frettoloso
rivolto a Rosa, andò via dalla piazza.
Non
collegarono i fatti fino alla notte di una settimana dopo.
Pioveva
a dirotto, un temporale estivo che scuoteva porte e finestre e le
faceva gemere con un verso triste e insistente. Antonio e Rosa
facevano finta di dormire, ciascuno sul suo bordo del letto. Ad un
tratto, un rumore che non era quello del vento: stavano bussando alla
porta.
Sotto
lo stipite un carabiniere fradicio fino al midollo, gocciolante e
infreddolito.
<<Venite
con me. E’ stato trovato un bambino.>>
Restarono
qualche secondo immobili, increduli. Quando poi riuscirono ad
articolare nella mente quello che era stato detto, si ritrovavano già
in strada, con gli abiti della notte, spinti da quella forza che non
li aveva fatto smettere di sperare. Ebbero appena il tempo di
svegliare Nunzia e di lasciarla a una vicina.
Il
comando non era molto lontano, eppure pareva che il palazzo non si
offrisse mai alla vista, quasi che, per farsi beffe di loro, si
allontanasse man mano che si avvicinavano.
Era
notte fonda, e solo pochi agenti erano in servizio. Non appena
varcarono la soglia, sentirono distintamente il pianto di un bimbo.
Rosa si precipitò in quella direzione, e vide un ufficiale che
tentava di tenerlo in braccio e di dargli da mangiare con la
bottiglina. Pareva che non ne volesse sapere. Dopo aver corso tanto
per arrivare presto, Rosa non aveva il coraggio di avvicinarsi di
più: e se non fosse stato lui? Non avrebbe sopportato un’altra
delusione. Ma l’ufficiale spostò il braccio, e lei poté vedere il
ciuffo di capelli dorati del suo bambino. Tutto il dolore che
ribolliva in lei venne a galla, e si gettò a capofitto sull’uomo,
per recuperare quel figlio che aveva creduto perso per sempre. Il
pianto della madre si sovrappose a quello del bimbo, e Antonio,
dapprima incapace di muoversi, si unì all’abbraccio, soffocando
nei singhiozzi. Tutto quello che avevano sofferto non c’era più,
era scomparso, dissolto.
Seppero
che erano state prese delle persone, colte in flagrante con Carmine
mentre cercavano di andar via da Napoli. Avevano tentato di farlo in
silenzio, ma in quei tempi così difficili le strade erano
pattugliate anche di notte, e qualsiasi movimento, anche da una
regione all’altra, era controllato. Il bambino non aveva smesso di
piangere, e questo aveva insospettito Gennaro Spina, un giovane da
poco entrato nell’arma, di pattuglia per quella notte, che aveva
chiesto alla donna e ai due uomini che andavano via di scendere
dall’auto. Gennaro abitava nello stesso vicolo di Rosa, gli era
capitato spesso di vedere Carmine, vezzeggiato e portato da una porta
all’altra dalle comari, ed era rimasto molto turbato da quello che
gli era successo. Lo aveva identificato immediatamente, e aveva
arrestato il piccolo gruppo. La loro versione era stata che, durante
il fuggi fuggi generale capitato a causa della minaccia di
bombardamento, avevano trovato il bambino in strada e lo avevano
raccolto. Pensavano fosse stato abbandonato, e per questo, avendone
avuta compassione, avevano deciso di portarlo con loro nella loro
casa, a Milano, dove lo avrebbero registrato come loro figlio
legittimo e avrebbero potuto offirgli una buona vita.
Si
trattava di due coniugi, i signori De Cristofaro, e del padre di
lei, l’avvocato Castiello.
Antonio
sussultò, insieme a Rosa.
<<Li
conoscete?>>. Chiesero loro gli ufficiali.
I
due raccontarono che l’avvocato Castiello era loro cliente, e che
spesso veniva a comprare da loro.
<<Allora
questo cambia le cose.>> osservò un ufficiale. <<Quand’è
stata l’ultima volta che l’avvocato è venuto da Voi, prima
dell’allarme?>>
Antonio
non ricordava, ma Rosa poté affermare con decisione che non era
stato più di tre o quattro giorni prima.
<<E’
probabile quindi che il bambino lo conoscessero benissimo… Forse
hanno colto il momento adatto, magari non l’ hanno premeditato, ma
hanno saputo approfittare della situazione. Forse volevano
rubare proprio quel bambino>>
Era
necessario che i due coniugi testimoniassero e identificassero quelle
persone, per poter chiarire la dinamica dei fatti.
Antonio
sentiva una grande rabbia affiorargli dal profondo: come era
possibile che una persona così perbene come l’avvocato, facesse
una cosa del genere, e proprio a lui, che lo aveva sempre trattato
con rispetto? Aveva creduto che le persone di un certo livello non
potessero giungere a tali bassezze, ma si rendeva conto ora con
stupore che la meschinità poteva albergare anche in un cuore
illustre.
Con
tanto amaro in bocca, i due si apprestarono a collaborare con gli
ufficiali. Si sedettero a un tavolo lungo, e aspettarono che i tre
fossero portati davanti a loro. Li videro dopo un po’. C’era un
uomo, giovane, sulla trentina, molto alto, lindo, con uno sguardo
gelido e imperscrutabile. Lo seguiva a pochi centimetri di distanza
una donna esile, molto esile, dal volto sottile, sofferente, anche
lei piuttosto giovane, e anche bella, se non fosse stato per l’aria
malaticcia. E infine l’avvocato Castiello, il volto grinzoso
contratto, rosso fino alla cima dei capelli, un fascio di nervi.
I
tre si sedettero a un angolo del tavolo. L’uomo, giovane,
verosimilmente il signor de Cristofaro, non sembrava per nulla
turbato. Diversa invece era l’espressione dell’avvocato e di sua
figlia, che si dondolavano sulle sedie, aspettando di sentire cosa
avessero da chiedere gli ufficiali. Avevano visto Antonio e Rosa, e
parevano scossi. Un Carabiniere anziano chiese senza tanti preamboli
ai tre arrestati se conoscessero quella coppia. Marito e moglie
risposero di no, ed effettivamente era vero, perché non si erano mai
visti prima di allora. L’avvocato rispose che credeva di averli
visti da qualche parte, anche se non ricordava dove, ma si vedeva che
si sforzava di non agitarsi.
<<Non
vi ricordate?>> fece di rimando il Carabiniere, seguendo una
linea dura << Ve lo devo ricordare io chi sono?>>
L’avvocato
era visibilmente teso, ma continuò a sostenere di non ricordare.
<<E’
strano>> continuò il carabiniere << Io mi ricordo bene
che faccia ha quello che mi vende da mangiare…>>
L’uomo
fece finta aver avuto un’illuminazione improvvisa… Ma certo!,
disse, Antonio e Rosa, adesso sì che ricordava! Le cose si mettevano
male per lui, lo informò l’ufficiale. Come avrebbe fatto a
giustificare la versione dei fatti che avevano raccontato? Come è
possibile che non sapesse la disgrazia che era capitata ai due
genitori? Non aveva sospettato niente, quando aveva trovato il
bambino? E come mai non aveva avvertito nessun rappresentante della
legge?
Le
contraddizioni erano troppe, e l’avvocato sembrava esserne
consapevole, tanto che a un certo punto parve lì lì per crollare.
Intervenne però il Genero, che si alzò, con aria minacciosa.
<<Ora
basta>> -disse- << Non tollero che ci si possa trattare
in questo modo, come criminali. Non sapete cosa state facendo! Non
sapete chi sono io! Sono il dottor de Cristofaro, e se parlo di come
ci avete trattato con certi miei amici… sarete spediti ai confini,
tutti quanti voi!>>
Il
vecchio carabiniere non sembrò affatto scosso.
<<Se
voi avvertite gli amici vostri>> -ribattè- << Io avverto
gli amici miei. E vediamo un po’ chi ha ragione!>>.
La
donna scoppiò in un pianto dirotto. Non ce la faceva più a
resistere, non in quel modo, avrebbe confessato tutto.
Era
stata lei che aveva deciso di rubare il bambino. Sapeva di essere
sterile, e per paura che il suo matrimonio potesse entrare in crisi
per mancanza di figli, aveva accarezzato più volte l’idea di
adottarne uno. Era scesa a Napoli da Milano, sperando che qualche
povera donna, nell’impossibilità di allevare un bambino, potesse
cederlo a lei. Ma dopo un mese di ricerche non era riuscita ad
ottenere quello che cercava. Quando suo padre, di ritorno da una
passeggiata, le aveva raccontato quant’era bello il figlio del suo
fruttivendolo, e di come dormisse in una cesta per frutta, lei aveva
cominciato a pensare che avrebbe potuto offrirgli molto di più.
A
questo punto il padre la fermò. Non era vero, disse. A lui era
venuta l’idea di rapire il bambino. Sapeva che il matrimonio di sua
figlia non era completamente felice, e aveva pensato di risollevarlo
trovandole un bambino da accudire. Carmine gli sembrava perfetto.
Aveva programmato il giorno e le modalità, ma poi l’allarme gli
aveva offerto un’occasione insperata e perfetta…
L’avvocato
non diceva la verità, sostenne il genero, che per la prima volta
perdeva la sua espressione di gelido autocontrollo. Era stato lui a
rapire il bambino, approfittando della confusione che si era creata,
l’iniziativa era partita da lui.
I
due uomini, era evidente, si assumevano la colpa per scagionare la
donna. Ma nessuno dei tre avrebbe subito alcuna condanna se Antonio e
Rosa non avessero reso testimonianza contro di loro.
I
carabinieri fecero presente ai genitori questa cosa, e li invitarono
a seguirli per registrare il verbale.
Rosa
guardò la donna, curva sulla sedia, disfatta dalle lacrime, e suo
padre, con la testa tra le mani. Provò una grande tristezza per
loro, soprattutto quando vide che il marito della donna si era
allontanato da lei, e non si lasciava abbracciare, di nuovo chiuso
nel suo contegno impassibile. Gli ufficiali li separarono, e li
portarono nelle stanze attigue.
Antonio
e Rosa si trovarono di fronte al Carabiniere che chiedeva loro di
raccontare con precisione tutta la storia dall’inizio. Si sentì un
pianto debole e straziante da una delle stanze vicine. Rosa
impallidì, osservò il marito, che stava raccontando tutto
dall’inizio, e lo fermò.
<<Brigadiè…>>
- disse - << Lasciate stare…>>
<<Come,
signora, non li volete denunciare?>>
<<Non
Vi preoccupate… l’importante è o’ criaturo… Sta bene, sta
con me, non mi interessa più niente…>>
<<Ma
come… Rosa? Che stai dicendo?>> intervenne Antonio
<<
Per piacere, dai retta a me… mi vuoi dare retta?>> e gli mise
Carmine in braccio. Antonio strinse suo figlio al petto, e
d’improvviso tutto il resto gli sembrò superfluo. Si fidò della
moglie, e del resto, era troppo scosso da tutto quello che era
successo per reagire in modo diverso. Sapeva solo che aveva ritrovato
suo figlio, e questo gli bastava.
Il
Carabiniere alzò le mani.
<<Se
vi sta bene così, io non Vi posso dire niente. Potete andare. E
tanti auguri p’o piccerillo!>>
E
tornarono a casa, in fretta. Nel vicolo li stavano aspettando tutti
fuori dalle porte. Nessuno aveva dormito. La vicina che si era
occupata di Nunzia, dopo aver messo a letto la bambina, aveva diffuso
la buona notizia. Una folla impaziente li aspettava, e non appena li
videro, fecero festa insieme a loro.
Antonio
e Rosa dispensarono sorrisi e buone parole, ma pregarono anche di
essere lasciati soli. Era stata una notte lunga e insonne, avevano
bisogno di dormire. Senz’altro la loro preghiera fu ascoltata, e in
un attimo tutti si ritirarono nelle loro case. In fondo, anche loro
sentivano la stanchezza della notte in bianco. Preferirono non
svegliare un’altra volta Nunzia, e farla dormire tranquilla fino
alla mattina. Le prime luci dell’alba invasero la città proprio
quando i due rientrarono nella loro stanza da letto. La pioggia si
era calmata
<<E
allora?>> - Chiese Antonio, una volta in casa. - <<
Perché?>>
Lo
aveva chiesto senza rabbia, senza rancore. Sicuramente la moglie
aveva avuto una buona ragione per risparmiare la prigione a quei tre,
ma francamente era curioso di sapere cosa l’aveva spinta a fare
quello che aveva fatto.
Rosa
glielo spiegò: aveva avuto pena della figlia dell’avvocato, che
si era abbassata a rubare il figlio di altri perché non poteva
averne lei. Come era possibile farle ancora più male? Chi ne avrebbe
avuto il coraggio? Non lei.
<<’Na
femmena senza figlie… già sconta ‘a pena soja…>>
concluse, con calma, continuando a cullare Carmine, che intanto, tra
le braccia note della mamma, si era addormentato sereno.
Antonio
le diede un bacio e la guardò con occhi che sprigionavano amore
infinito. Quella donna trovava sempre il modo di stupirlo. E non fu
mai così fiero di averla sposata.
La
storia di Carmine fece il giro della città. In una tale girandola di
orrori finalmente si sentiva qualcosa di bello, che faceva gioire gli
animi. Molti “colorirono” un po’ i fatti. Si disse che era
stato rubato dai Tedeschi, che lo avevano visto e avevano pensato che
fosse un bambino troppo bello per vivere in mezzo alla miseria.
Altri ancora dissero che gli Angeli lo avevano preso perché lo
avevano scambiato per uno di loro. Qualcuno estrapolò anche dei
numeri da giocare al lotto: 2, 63 e 79, vale a dire il bambino, la
cesta e il ladro. Quella settimana di numero non ne uscì neanche uno
ma in compenso nacque un’altra leggenda urbana.
Anna
Zarlenga
Ciao Anna!
RispondiEliminaHai scritto un racconto molto bello e toccante. sono rimasta colpita dalla sensibilità della madre del bambino nei confronti di una donna che non potrà mai stringere un proprio figlio tra le braccia.
scrivi molto bene e le tue descrizioni bucano le pagine, oggigiorno è cosa rara, credimi!
Grazie Milena, questo racconto è di tanti anni fa, purtroppo mi sa che ho perso lo smalto, quello era il mio periodo d'oro. Spero di ritrovare un giorno la giusta ispirazione. Sto scrivendo ancora, ma non so se troverò mai il coraggio di ripropormi, per il momento mi godo la lettura di ottimi scrittori ;-)
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