giovedì 6 ottobre 2016

Chi trova un racconto trova un tesoro


Da adolescente scrivevo molto. poesie e racconti per lo più. Alcuni racconti mi hanno dato una certa soddisfazione, nel senso che hanno vinto dei premi. Niente di eccezionale, eh? Premi locali, premi scolastici, ma quando  hai 17 anni e trovi una lettera di complimenti da una giuria di professori il mondo sembra un posto migliore. Oggi spulciavo un po' tra le cartelle salvate del mio vecchio pc ed è saltato fuori questo racconto che scrissi più o meno tra il 2004 e il 2005. Non pretendo sia un capolavoro, ma ho gioito quando l'ho ripescato perchè questa storia nasce da un mio grande bisogno, quello di fissare e dare lunga vita ai racconti di mia madre e di mia nonna Sono sempre stata affascinata dal loro modo di raccontare, dalla loro capacità di creare aspettativa ed entusiasmo con la sola voce. Ecco, il mio obiettivo sarebbe quello di dare alla parola scritta la loro voce. Vi posto questo racconto, perchè da qualche parte devo pur cominciare, perchè ho deciso di mostrare quanto amo raccontare. Spero di donarvi qualche minuto piacevole





Due, sessantatrè e settantanove





Carmine era nato in un bel mattino di sole, verso le dieci, a Gennaio, due giorni dopo l’Epifania. A Napoli era tempo di guerra, e la città era percorsa da camionette militari, che pattugliavano la zona.
Nunzia, la sorellina, quella notte era stata mandata via, dalla nonna, e aveva dormito nel suo letto di legno scuro, sormontato da un Volto Santo con un cuore luminoso.
<<La mamma deve incontrare la cicogna>> le era stato detto. Aveva pianto e protestato: la cicogna la voleva vedere anche lei.
<<Eh no, non si può>>- le avevano risposto, in coro - << Altrimenti la cicogna non viene più!>>.
Si era rassegnata, e, continuando a singhiozzare, anche se un po’ di meno, aveva lasciato che la nonna la portasse via, con la promessa che una volta a casa le sarebbe stato preparato un bel bicchiere pieno di mele con lo zucchero.
Per Rosa la notte fu lunga, interminabile. Il dolore la piegò in due, le lacerò le viscere, e all’alba le sembrava di aver messo sulle spalle cinque anni di più. Il suo letto di nozze era fradicio e insanguinato, nonostante il gran numero di stracci che aveva raccolto un po’ dalla sua dote, un po’ dalla colletta che avevano fatto le comari del vicolo.
<<In che tempi nasce quest’anima di Dio!>> aveva esclamato la levatrice mandata a chiamare in tutta fretta, alle nove di sera, mentre stava finendo di cenare.
<<Povera creatura>>- aveva ribadito ad una vicina di casa accorsa in aiuto -<< La guerra, il padre che si arrangia a fare il fruttivendolo in mezzo alla piazza…>>
Il parto non era stato semplice. La levatrice, la “mammana”, come la chiamavano, ne aveva visti di peggiori, ma questo la spaventava di più perché avveniva all’inizio dell’ottavo mese, e lei sapeva che era probabile che il bambino morisse.
Invece il bambino nacque, in mattinata, e diede testimonianza della sua venuta con grida perentorie, furiose.
<< Tiene ‘na bella forza ‘stu criaturo!>> Aveva esclamato la donna, portando il fagotto a Rosa dopo averlo lavato.
Piccolo era piccolo, aveva costatato Rosa. La pelle era trasparente, come quella di una lucertolina appena uscita dall’uovo, le dita sembravano fiammiferi, i capelli quasi non ce li aveva. Baciò il suo bambino, già invasa dall’amore per quella creatura talmente minuscola da poter esser retta con una mano, e forse proprio il fatto che fosse così fragile accentuò la sua emozione, e il cuore le si riempì di calore.
Antonio tornò dopo due giorni. Era andato nell’entroterra per comprare la frutta e la verdura da rivendere in piazza. Le vendite non andavano proprio benissimo, ma ancora qualche gran signore non rinunciava a fare la spesa, ed era suo cliente fisso. Tutto sommato riusciva a sbarcare il lunario, e non poteva poi tanto lamentarsi. Aspettava la fine della guerra per riprendere il suo lavoro, nella conceria.
Tornò che ormai era tutto finito. Vide la moglie a letto, mentre offriva il seno al suo nuovo bimbo, con accanto la piccola Nunzia che gli tormentava i piedini. Avevano aspettato lui per scegliergli un nome. Antonio lo prese, e si accorse con sconforto che era rachitico. Tuttavia tale fu la gioia di avere il suo primo figlio maschio tra le braccia, che non poté fare a meno di versare qualche lacrima.
Lo chiamarono Carmine, come il nonno, il padre di Antonio. Anche Antonio del resto, aveva il nome di suo nonno. Nella sua famiglia, in verità, le generazioni erano scandite dal susseguirsi di vari “Carmini” e “Antonii”. I cugini si chiamavano tutti allo stesso modo, e quando capitava una riunione, era arduo districarsi in quel groviglio di omonimi.
Del nonno, Carmine aveva ben poco: mentre l’uno era forte, tozzo, rubicondo, l’altro mostrava già di essere esile, delicato. La testa pelata si era nei giorni successivi al parto ricoperta di una peluria soffice e rada, di un colore biondo tendente al rossiccio. Antonio aveva guardato con sospetto la moglie per un po’, visto che quel bimbo non aveva nessuno dei tratti della sua famiglia. Era una persona semplice, l’innocenza del suo animo non era stata contaminata con la conoscenza, per cui se solo lo avesse studiato, avrebbe saputo che probabilmente nel miscuglio dei geni suoi e della sua donna ce ne era uno risalente a chissà quale ramo della famiglia con le caratteristiche del piccolo Carmine.
Ma di tutto questo non si occupava, e gli bastò infine credere alla moglie, alla sua fedeltà congenita, e al suo amore verso di lui, consapevole anche che da quando erano sposati mai un momento era rimasta sola, poiché o c’era la madre o c’era qualche zitella del vicolo che le faceva perpetua compagnia, anche di notte. E del resto, con gli occhi puntati che le comari avevano, certo una mancanza non sarebbe loro sfuggita. E poi, le più vecchie tra loro ricordavano perfettamente una prozia di Rosa, anch’essa di nome Rosa, che era bionda e pallida come il nuovo arrivato.
Insomma, il piccolo giallo si risolse entro le mura domestiche, senza tragedie.
L’inverno passò, tra raffiche di vento e pioggia battente. Rosa restò in casa con Carmine e Nunzia. Siccome credeva che certe cose si dovessero imparare prima possibile, e visto che non poteva scendere in piazza ad aiutare il marito,ne approfittò per iniziare sua figlia alla “religione della casa”. Nunzia aveva appena cinque anni, ma Rosa alla sua età già asciugava i piatti alla mamma, con un grembiule che le arrivava ai piedi, in bilico su uno sgabello, perché era troppo piccola per arrivare alla tavola.
Si era sposata giovane, Rosa. Aveva appena sedici anni quando si era fidanzata con Antonio. Lui già lavorava alla conceria, aveva un posto di lavoro apprezzabile, era conosciuto da tutti come un ragazzo serio. Era alto e bruno, e la faceva ridere. Aveva una bella voce, e quando si era dichiarato le aveva cantato una canzone d’amore. Lei si trovava una sera, dopo cena, con le sue sorelle attorno a un tavolo. Giocavano a carte, serene. La guerra non c’era ancora, non se ne sentiva neanche parlare. Ad un certo punto, una voce da un angolo della strada aveva intonato una canzone dolente. Rosa si era mossa nervosamente sulla sedia: aveva riconosciuto quella voce, era il ragazzo che vedeva quasi ogni giorno, quando andava nei dintorni a consegnare le camicie e gli indumenti vari che la mamma cuciva. La mamma, infatti, era sarta, e aveva una clientela piuttosto nutrita.Confezionava abiti su misura e indumenti intimi, rammendava e modificava capi di diverso tipo. Aveva anche imparato a rivoltare i cappotti, pratica molto diffusa allora, perché un cappotto costava troppo, e si cercava di farlo durare più a lungo possibile. Rosa la aiutava quando poteva ad attaccar bottoni, a cucire asole, ad accorciar pantaloni, e aveva ricevuto l’incarico di andare a consegnare i lavori ultimati, cosa che faceva sempre più volentieri, da quando si era accorta di richiamare l’attenzione di un giovane che quasi tutti i pomeriggi, dopo il lavoro, si ritrovava con gli amici al bar poco lontano da casa sua.Ogni volta che passava, aveva sempre uno sguardo gentile, o una battuta spiritosa per lei, che faceva finta di non essere per niente interessata. Un giorno l’aveva fermata, e le aveva chiesto con un sorriso se poteva invitarla a fare una passeggiata.
<< Esco solo col fidanzato mio.>> aveva risposto Rosa.
<<Ah…>>- aveva ribattuto lui, visibilmente deluso - <<Siete fidanzata?>>
Rosa si era divertita a farlo soffrire qualche secondo, e poi gli aveva risposto di no. Allora lui era ritornato alla carica, e l’aveva seguita a pochi passi dalla porta di casa. Le assicurava che era un bravo ragazzo, e che aveva intenzioni serie. Rosa si era fermata, e gli aveva risposto, con fare provocatorio :<< Mi fidanzo solo con chi mi canta la serenata!>>. Non voleva sembrare troppo arrendevole. La mamma le aveva sempre detto che doveva farsi desiderare, e lei aveva buttato lì quella che le pareva una risposta assurda. Non pensava che l’avrebbe presa alla lettera, ma solo che avrebbe continuato a corteggiarla, o tuttalpiù rinunciato. E invece lui si era recato sotto la sua casa con alcuni amici, e le aveva dedicato una serenata così romantica, che le era sembrato di essere la protagonista di uno di quei film stranieri che ogni tanto le capitava di vedere al cinema, o alle proiezioni del circolo parrocchiale. Tutti i vicini si erano affacciati alle finestre o ai balconi. Le sorelle l’avevano invidiata ferocemente. Finita la canzone, Antonio si era presentato a suo padre, e dopo averlo rassicurato sulla sua posizione e integrità morale, aveva chiesto la sua mano.
In poco meno di sei mesi si erano sposati. I suoi genitori non avevano voluto correre i rischi di un fidanzamento lungo.Troppo sospetti infatti erano gli sguardi che i due innamorati si lanciavano da un’estremità all’altra del tavolo, durante le cene. Una sera il padre l’aveva sorpresa avvinghiata al fidanzato, le labbra incollate alle sue. Era un tipo all’antica, e non tollerava tali spettacoli. Prima che potessero mettere in pratica quello che i loro corpi giovani e appassionati suggerivano, avevano fatto in modo di accelerare i preparativi. Qualcuno della famiglia aveva tentato di far notare loro che era inutile correre a quel modo, che quello non era un matrimonio riparatore.
<<Meglio correre adesso senza motivo, che correre dopo con un motivo>> avevano risposto. Non faceva una grinza, in effetti, e i consigli improntati alla calma cessarono di essere espressi.
Rosa si era sposata, così, in Giugno, nella sua parrocchia, con il vestito che le aveva cucito apposta la mamma, un vestito dallo strascico lungo, candido, come aveva sempre desiderato. Si era ritrovata ad essere madre a neanche diciott’anni.
Le era servita molto l’iniziazione precoce alla cura della casa, e per questo aveva deciso di istruire Nunzia, che dal canto suo non si tirava indietro. Per lei era come un gioco, e quel suo fratellino era come un bambolotto, anzi, più divertente di un bambolotto, perché era vivo, si muoveva, piangeva lacrime vere e faceva davvero la pipì. In quei mesi contribuì al suo bagnetto, aiutando la mamma a insaponargli la schiena. Ebbe anche modo di imparare ad impastare, cosa che le piacque tantissimo, soprattutto quando scoprì che la pasta messa a lievitare si gonfiava, si gonfiava… come un pallone! E poi, presoci ormai gusto in queste cose, cominciò a pregare la mamma di farle stendere le lenzuola all’aria. Ovviamente non poteva, le lenzuola erano troppo grandi per essere stese da lei, ma la mamma l’accontentò, facendole stendere gli indumenti del bimbo, più piccoli e maneggevoli, su di una corda che lei stessa preparò, adatta alla sua altezza, messa sul lato più riparato della casa, tra i braccioli di due vecchie sedie. Piccole cose ancora, ma Rosa sapeva che già così si avviavano le bambine ai mestieri di casa. Cosa secondo lei indispensabile perché trovasse un giorno la felicità coniugale.
L’inverno passò, e Carmine crebbe. Era sempre piuttosto piccolo, ma si era fatto proprio un bel bimbo. Il viso, da sfilato e sottile, era diventato tondeggiante e roseo. I capelli si erano schiariti ancora, e avevano cominciato a disporsi variamente sulla fronte in tanti piccoli riccioli. Gli occhi nocciola erano bordati lungo l’iride di una linea che tendeva al verde scuro. Nonostante le miseria, sembrava chi il latte di sua madre fosse ricco e nutriente per lui. Gridava disperatamente se non lo nutrivano a cadenze regolari, ed era uno spettacolo guardarlo mentre succhiava, gli occhi semichiusi, una manina sul viso. La sua espressione di beatitudine dopo la poppata,poi, sarebbe stata da incorniciare.Sorrideva a tutti con la boccuccia sdentata, e ormai mezzo vicinato si era innamorato di lui, assediava la casa di Rosa, impegnandola in discussioni interminabili, andava e veniva, si contendeva il privilegio di prendere il piccolo in braccio. “L’angiulillo”, l’angioletto, lo chiamavano, e a volte anche “o’ Tedesco”, il Tedesco, per via della sua capigliatura chiara. Rosa si adombrava quando sentiva queste cose e rimproverava subito chi lo chiamava così; i Tedeschi assediavano Napoli, e a volte passavano anche nel loro vicolo. Un’affermazione del genere sarebbe potuta essere presa per vera, ed era noto che quegli stranieri avevano distrutto case per molto meno. Erano un popolo che non si sapeva come prendere; un momento prima ti sembravano amici, un momento dopo ti assalivano. Una minima cosa poteva urtarli e far loro cambiare atteggiamento.
Era giunto ormai Maggio, e Rosa ritenne che facesse abbastanza caldo, e che poteva tornare in piazza e far vedere un po’ di quel mondo variopinto al suo bambino. Il sole aveva riempito le campagne delle primizie primaverili, e i ciliegi grondavano di frutti tondi e succosi. Il clima di quell’anno era stato eccezionale , e Antonio era tornato dal suo viaggio carico di frutta e con una graziosa cesta da usare come culla per far dormire Carmine, e come modo per trasportarlo con loro al mercato.
In estate la piazza era più affollata. Nonostante la guerra continuasse ad esserci, si cercava di dimenticare, di far finta che non ci fossero militari armati in strada, di evitare di pensare al fatto che i bombardamenti potevano avvenire da un momento all’altro, insomma, di fare ancora quello che era possibile per illudersi che tutto fosse normale. C’era poco da stare allegri, però: ormai si viveva solo di quello che le campagne producevano: la primavera aveva portato una buona rendita, ma l’inverno era stato trascorso tra gli stenti, con pochi prodotti, poca frutta e verdura. I rifornimenti dall’esterno erano quasi completamente tagliati, si poteva cercare qualcosa di contrabbando, ma era costoso, e anche pericoloso, perché bisognava incunearsi in vicoli di dubbia fama, e trattare con gente che fino al giorno prima era stata pezzente come te e che ora, con un ghigno crudele, gestiva a prezzi da usura generi di prima necessità.
Antonio era stato fortunato, perché, intraprendente com’era, non si era fatto scoraggiare dalla chiusura della sua fabbrica.
<<Quando finirà la guerra, se ci saremo ancora tutti, la fabbrica riaprirà e il posto sarà tuo. Intanto, vedi di fare qualcosa per arrangiarti>> gli aveva detto il suo capo. E Antonio si era rimboccato le maniche: dopo aver costruito un carretto, aveva fatto il giro delle campagne, e con quei pochi soldi che aveva da parte aveva comprato la prima partita di frutta.
Si era creato una sua clientela, perché in fin dei conti era un uomo onesto, e quel poco che vendeva lo vendeva a un prezzo giusto. Il suo scopo, del resto, non era arricchirsi –non avrebbe potuto neanche se avesse voluto-, ma sopravvivere fino alla fine della guerra. Che sembrava interminabile. La sentiva con mano, quando udiva la sirena dell’allarme, e si doveva rifugiare con moglie, figli e compagni di sventura nei sottoscala, mentre gli aerei militari passavano sopra alle case, facendo tremare i muri. Qualche volta bombardavano,e allora l’angoscia lo prendeva , per l’ansia di sapere se tra le case abbattute c’era anche la sua.
Antonio conosceva bene quella sensazione, e sperava che la guerra finisse presto, perché i suoi figli dimenticassero in fretta. Intanto, attirava i passanti con la sua bella voce, cantando canzoni spiritose, a volte un po’ maliziose… era il più amato in piazza. L’aiuto di Rosa era prezioso per lui. Aveva avuto il privilegio di vederla diventare ancora più bella di come era a sedici anni. La maternità le aveva infuso dolcezza nello sguardo e nel sorriso, che ora splendeva sul suo viso come il fuoco di un camino, caldo ed avvolgente.
Amava stare in strada durante il giorno. Il sole tiepido scaldava le pietre e il vento leggero trasportava l’odore del mare vicino. In quelle giornate si dimenticava la fame, la povertà, la guerra, tutte le miserie umane. Nunzia giocava con dei micini appena nati, e Carmine sonnecchiava beato nella sua cesta, tra la cassa di ciliegie e quella di lattuga.
<<Questo è il maschio, il campione della casa, eh, Antonio?>> aveva notato un giorno l’ avvocato Castiello, uno dei clienti più assidui di Antonio.
<<Si, dotto’. Avete visto quanto è bello ‘ o figlio mio?>> aveva risposto lui, compiaciuto.
<<Non ti vantare tanto Antonio! Ha preso dalla mamma…>>
<<Eh, si sa. La bellezza dalla mamma… Però qualcosa da me pure l’ha preso…>>
<<Sempre il solito burlone! Va bè, dai, che vado di fretta. Mia figlia è venuta a trovarmi oggi da Milano col marito. Ha detto che aveva voglia di ciliegie.>>
<<Pronte per voi! Mica vogliamo fare aspettare la sposina! Non sia mai, può essere incinta! E se poi ‘o criaturo vene cu ‘a voglia… a’ colpa nun sarrà mia!>>
<<Eh, magari!Amen! Mi piacerebbe diventare nonno! Ti saluto Antonio. A domani, se Dio vuole.>>
Quella giornata si era chiusa con un guadagno discreto, giusto la somma che permetteva di fare un po’ di provvista per qualche giorno e per comprare in campagna dell’altra verdura.
Tutto sommato stava andando bene, pensava Antonio. Anche se quello che guadagnava gli bastava appena per sfamarsi, viveva sempre meglio di tanti che non avevano proprio niente. E poi, visto che comprava frutta e verdura in campagna, ogni tanto teneva per sé qualche ortaggio per il brodo, o qualche primizia di stagione. Era ai limiti della sopravvivenza, ma era felice. Felice per quella moglie che ti tirava i baci dalla bocca, felice per la figlia che era una bambola dai capelli neri, felice per il nuovo arrivato, il maschio, che aveva fatto lui, proprio lui. A volte la sera rimaneva a guardarlo, mentre dormiva, nella cesta. Gli sembrava quasi che fosse un sogno.Una notte si era abbandonato sul seno di Rosa. Sentiva il cuore di sua moglie che batteva regolarmente, il respiro che le faceva alzare e abbassare il petto, il suo calore che l’avvolgeva. Non poteva credere di essere arrivato a quel livello di gioia. Volle svegliarla, perché non poteva fare a meno di farglielo sapere. Rosa si scosse, e lo guardò, alzandosi al centro del letto, preoccupata che non si sentisse bene. Lui le diede un bacio, lungo, caldo, la guardò nella penombra, rischiarata debolmente da strisce di luce infiltrate nelle persiane dalla strada. Non disse una parola, ma Rosa capì lo stesso dai suoi occhi quello che stava pensando.
Anche lei, nonostante le asprezze dei tempi, non avrebbe potuto chiedere di più.
Si era sposata per amore, e dopo quasi sette anni di matrimonio non un’ombra aveva intaccato il rapporto col marito. Lo amava profondamente. Non era una persona che esprimeva molto con le parole i suoi sentimenti, ma tutto il suo corpo era un canto d’amore per lui. In quel ciclone terribile erano riusciti a ritagliarsi un’isoletta di serenità. E si sentivano benedetti dal signore, privilegiati, in un certo senso, nei confronti di chi non conosceva quella felicità così semplice e così assoluta. Eppure, dentro il loro animo temevano sempre che qualcosa avrebbe potuto turbare il loro equilibrio.
Il “fatto” avvenne in uno dei primi giorni di Luglio. Il sole picchiava forte, anche se era mattina. Nella piazza le grida dei mercanti che tentavano di attirare clienti si accavallavano l’una sull’altra, dando vita a un singolare concerto. Dalle ceste facevano capolino le delizie di stagione. Antonio aveva una voce più bella che negli altri giorni, Rosa instancabilmente riordinava gli ortaggi e le pesche tonde e succose che erano arrivate fresche fresche dalla campagna, e con un occhio guardava il piccolo Carmine nella cesta, che tentava di mettersi un piede in bocca. Nunzia quel giorno era stata affidata alle cure della nonna, perché aveva un po’ di raffreddore.
Fu un attimo. La sirena suonò gettando tutti nel panico: gli aerei stavano sorvolando la città. Rosa chiamò il marito che si era allontanato in fondo alla piazza, il tempo di girarsi, e quando guardò indietro la cesta era sparita. Carmine non c’era più. Rosa cominciò a gridare disperatamente, facendo accorrere subito Antonio e tutti quelli che erano vicino a lui. Come impazzita, era impossibile sorreggerla. La sirena ricordava a tutti la necessità di cercare un rifugio, ma non c’era verso di farla muovere da lì. Non si sarebbe mossa, affermava, se non avesse ritrovato Carmine.
Gli aerei si avvicinavano inesorabilmente. Antonio, come inebetito, non sapeva risolversi a far qualcosa. Furono i suoi amici del mercato, Giannino e Salvatore, che decisero per lui; Giannino si caricò sulle spalle Rosa, che si dibatteva perché non voleva spostarsi, e Salvatore si occupò di Antonio, che si lasciò guidare nel sottoscala senza resistenza, con uno sguardo assente, simile a un sonnambulo.
Stipati in uno spazio di poco più di dieci metri quadri, Rosa e Antonio si abbracciarono, lacerati dal dolore più che dalla paura del bombardamento. Furono momenti terribili. Se uscivano potevano morire, ma ad ogni minuto che passava diminuiva la probabilità di trovare il bambino. Chissà, forse era in un vicolo, in mezzo a una strada, possibile bersaglio delle bombe. Febbricitanti d’ansia, i due attesero il passaggio degli aerei.
Il bombardamento non ci fu, per fortuna. Le persone uscirono di nuovo alla luce, con la sensazione di essere stati miracolati.
I due genitori invece si sentivano maledetti, vittime di un destino invidioso. La loro felicità era stata spazzata via in pochi attimi. La prima cosa che fecero, una volta risaliti dal sottoscala, fu quella di percorrere in lungo e in largo le strade circostanti. Ci fu grande partecipazione, perché la scomparsa di un bambino destava preoccupazione e rabbia. In piazza c’era la postazione dei Carabinieri, che provvide a perlustrare la zona. Niente. Cercarono senza sosta fino alla sera. Di Carmine nessuna traccia. Come avevano fatto a farlo sparire così in fretta? Rosa non riusciva a rassegnarsi. Passò la notte sveglia, a piangere, dondolandosi sul bordo della sedia, mentre Antonio macinò il suo dolore con la testa appoggiata al tavolo.
Il giorno dopo, alle prime luci, ripresero la ricerca. Allargarono il campo, cominciarono a fare domande, cercando di capire se ci fosse stata una persona che avesse visto qualcuno con una cesta in mano. Certo che avevano visto qualcuno con una cesta, si sentivano a volte rispondere, ma mica potevano sapere cosa c’era dentro? Del resto, con la confusione del giorno prima, non si era fatto molto caso a quello che succedeva attorno.
Lo sconforto li aveva ormai sopraffatti, ma non volevano, non potevano pensare al peggio. Il vicinato li compativa per il grande dolore che dovevano sopportare, e non aveva il coraggio di suggerire loro di fermare le ricerche. Come si faceva a dire a una madre di non tentare di ritrovare suo figlio? E così, anche se nel loro animo tutti erano poco convinti dell’utilità della cosa, rovistarono ancora gli anfratti più nascosti del circondario, e si spinsero anche in periferia.
Passò quasi un mese senza risultati. La rassegnazione non era possibile per Rosa e Antonio, e nondimeno dovettero riprendere a lavorare. C’era Nunzia che aveva bisogno di mangiare, e non potevano non pensarci. Il sorriso però si era spento sui loro volti, e Antonio non cantava più per attirar clienti. Ogni volta che qualcuno passava con un bambino in braccio, loro aguzzavano gli occhi, sperando, pregando che fosse il loro Carmine, e grande era la delusione nel rendersi conto di aver sperato inutilmente. Nella piazza era conosciuta la loro sventura. Ciascuno dei mercanti si sentiva anche un po’ in colpa per non essere riuscito a vedere niente. Per burla del destino, mai come in quei tempi gli affari andarono bene. Anche i clienti sapevano quello che era successo, e se dovevano comprare qualcosa lo compravano da loro, da quei poveri sfortunati genitori. Per Antonio tutto era ormai irrilevante e privo di interesse. Lui e la moglie dormivano schiena contro schiena, incapaci anche di piangere l’uno nelle braccia dell’altra.
Una mattina passò di lì l’avvocato Castiello. Era visibilmente imbarazzato. Sembrava non sapesse cosa dire, lui, che delle parole era considerato il re. Biascicò qualche frase di contrizione, che Antonio accolse con un debole cenno.
<<Come sta vostra figlia?>> chiese Antonio, nel tentativo di essere più educato possibile. Sul volto dell’avvocato si materializzò un’espressione fulminea, che scomparve subito, un’espressione a metà tra il terrore puro e la vergogna.
<<Bene, Antonio, grazie. Sei gentile e squisito come sempre.>>
Raccolse il cartoccio con la frutta e, dopo aver fatto un saluto frettoloso rivolto a Rosa, andò via dalla piazza.
Non collegarono i fatti fino alla notte di una settimana dopo.
Pioveva a dirotto, un temporale estivo che scuoteva porte e finestre e le faceva gemere con un verso triste e insistente. Antonio e Rosa facevano finta di dormire, ciascuno sul suo bordo del letto. Ad un tratto, un rumore che non era quello del vento: stavano bussando alla porta.
Sotto lo stipite un carabiniere fradicio fino al midollo, gocciolante e infreddolito.
<<Venite con me. E’ stato trovato un bambino.>>
Restarono qualche secondo immobili, increduli. Quando poi riuscirono ad articolare nella mente quello che era stato detto, si ritrovavano già in strada, con gli abiti della notte, spinti da quella forza che non li aveva fatto smettere di sperare. Ebbero appena il tempo di svegliare Nunzia e di lasciarla a una vicina.
Il comando non era molto lontano, eppure pareva che il palazzo non si offrisse mai alla vista, quasi che, per farsi beffe di loro, si allontanasse man mano che si avvicinavano.
Era notte fonda, e solo pochi agenti erano in servizio. Non appena varcarono la soglia, sentirono distintamente il pianto di un bimbo. Rosa si precipitò in quella direzione, e vide un ufficiale che tentava di tenerlo in braccio e di dargli da mangiare con la bottiglina. Pareva che non ne volesse sapere. Dopo aver corso tanto per arrivare presto, Rosa non aveva il coraggio di avvicinarsi di più: e se non fosse stato lui? Non avrebbe sopportato un’altra delusione. Ma l’ufficiale spostò il braccio, e lei poté vedere il ciuffo di capelli dorati del suo bambino. Tutto il dolore che ribolliva in lei venne a galla, e si gettò a capofitto sull’uomo, per recuperare quel figlio che aveva creduto perso per sempre. Il pianto della madre si sovrappose a quello del bimbo, e Antonio, dapprima incapace di muoversi, si unì all’abbraccio, soffocando nei singhiozzi. Tutto quello che avevano sofferto non c’era più, era scomparso, dissolto.
Seppero che erano state prese delle persone, colte in flagrante con Carmine mentre cercavano di andar via da Napoli. Avevano tentato di farlo in silenzio, ma in quei tempi così difficili le strade erano pattugliate anche di notte, e qualsiasi movimento, anche da una regione all’altra, era controllato. Il bambino non aveva smesso di piangere, e questo aveva insospettito Gennaro Spina, un giovane da poco entrato nell’arma, di pattuglia per quella notte, che aveva chiesto alla donna e ai due uomini che andavano via di scendere dall’auto. Gennaro abitava nello stesso vicolo di Rosa, gli era capitato spesso di vedere Carmine, vezzeggiato e portato da una porta all’altra dalle comari, ed era rimasto molto turbato da quello che gli era successo. Lo aveva identificato immediatamente, e aveva arrestato il piccolo gruppo. La loro versione era stata che, durante il fuggi fuggi generale capitato a causa della minaccia di bombardamento, avevano trovato il bambino in strada e lo avevano raccolto. Pensavano fosse stato abbandonato, e per questo, avendone avuta compassione, avevano deciso di portarlo con loro nella loro casa, a Milano, dove lo avrebbero registrato come loro figlio legittimo e avrebbero potuto offirgli una buona vita.
Si trattava di due coniugi, i signori De Cristofaro, e del padre di lei, l’avvocato Castiello.
Antonio sussultò, insieme a Rosa.
<<Li conoscete?>>. Chiesero loro gli ufficiali.
I due raccontarono che l’avvocato Castiello era loro cliente, e che spesso veniva a comprare da loro.
<<Allora questo cambia le cose.>> osservò un ufficiale. <<Quand’è stata l’ultima volta che l’avvocato è venuto da Voi, prima dell’allarme?>>
Antonio non ricordava, ma Rosa poté affermare con decisione che non era stato più di tre o quattro giorni prima.
<<E’ probabile quindi che il bambino lo conoscessero benissimo… Forse hanno colto il momento adatto, magari non l’ hanno premeditato, ma hanno saputo approfittare della situazione. Forse volevano rubare proprio quel bambino>>
Era necessario che i due coniugi testimoniassero e identificassero quelle persone, per poter chiarire la dinamica dei fatti.
Antonio sentiva una grande rabbia affiorargli dal profondo: come era possibile che una persona così perbene come l’avvocato, facesse una cosa del genere, e proprio a lui, che lo aveva sempre trattato con rispetto? Aveva creduto che le persone di un certo livello non potessero giungere a tali bassezze, ma si rendeva conto ora con stupore che la meschinità poteva albergare anche in un cuore illustre.
Con tanto amaro in bocca, i due si apprestarono a collaborare con gli ufficiali. Si sedettero a un tavolo lungo, e aspettarono che i tre fossero portati davanti a loro. Li videro dopo un po’. C’era un uomo, giovane, sulla trentina, molto alto, lindo, con uno sguardo gelido e imperscrutabile. Lo seguiva a pochi centimetri di distanza una donna esile, molto esile, dal volto sottile, sofferente, anche lei piuttosto giovane, e anche bella, se non fosse stato per l’aria malaticcia. E infine l’avvocato Castiello, il volto grinzoso contratto, rosso fino alla cima dei capelli, un fascio di nervi.
I tre si sedettero a un angolo del tavolo. L’uomo, giovane, verosimilmente il signor de Cristofaro, non sembrava per nulla turbato. Diversa invece era l’espressione dell’avvocato e di sua figlia, che si dondolavano sulle sedie, aspettando di sentire cosa avessero da chiedere gli ufficiali. Avevano visto Antonio e Rosa, e parevano scossi. Un Carabiniere anziano chiese senza tanti preamboli ai tre arrestati se conoscessero quella coppia. Marito e moglie risposero di no, ed effettivamente era vero, perché non si erano mai visti prima di allora. L’avvocato rispose che credeva di averli visti da qualche parte, anche se non ricordava dove, ma si vedeva che si sforzava di non agitarsi.
<<Non vi ricordate?>> fece di rimando il Carabiniere, seguendo una linea dura << Ve lo devo ricordare io chi sono?>>
L’avvocato era visibilmente teso, ma continuò a sostenere di non ricordare.
<<E’ strano>> continuò il carabiniere << Io mi ricordo bene che faccia ha quello che mi vende da mangiare…>>
L’uomo fece finta aver avuto un’illuminazione improvvisa… Ma certo!, disse, Antonio e Rosa, adesso sì che ricordava! Le cose si mettevano male per lui, lo informò l’ufficiale. Come avrebbe fatto a giustificare la versione dei fatti che avevano raccontato? Come è possibile che non sapesse la disgrazia che era capitata ai due genitori? Non aveva sospettato niente, quando aveva trovato il bambino? E come mai non aveva avvertito nessun rappresentante della legge?
Le contraddizioni erano troppe, e l’avvocato sembrava esserne consapevole, tanto che a un certo punto parve lì lì per crollare. Intervenne però il Genero, che si alzò, con aria minacciosa.
<<Ora basta>> -disse- << Non tollero che ci si possa trattare in questo modo, come criminali. Non sapete cosa state facendo! Non sapete chi sono io! Sono il dottor de Cristofaro, e se parlo di come ci avete trattato con certi miei amici… sarete spediti ai confini, tutti quanti voi!>>
Il vecchio carabiniere non sembrò affatto scosso.
<<Se voi avvertite gli amici vostri>> -ribattè- << Io avverto gli amici miei. E vediamo un po’ chi ha ragione!>>.
La donna scoppiò in un pianto dirotto. Non ce la faceva più a resistere, non in quel modo, avrebbe confessato tutto.
Era stata lei che aveva deciso di rubare il bambino. Sapeva di essere sterile, e per paura che il suo matrimonio potesse entrare in crisi per mancanza di figli, aveva accarezzato più volte l’idea di adottarne uno. Era scesa a Napoli da Milano, sperando che qualche povera donna, nell’impossibilità di allevare un bambino, potesse cederlo a lei. Ma dopo un mese di ricerche non era riuscita ad ottenere quello che cercava. Quando suo padre, di ritorno da una passeggiata, le aveva raccontato quant’era bello il figlio del suo fruttivendolo, e di come dormisse in una cesta per frutta, lei aveva cominciato a pensare che avrebbe potuto offrirgli molto di più.
A questo punto il padre la fermò. Non era vero, disse. A lui era venuta l’idea di rapire il bambino. Sapeva che il matrimonio di sua figlia non era completamente felice, e aveva pensato di risollevarlo trovandole un bambino da accudire. Carmine gli sembrava perfetto. Aveva programmato il giorno e le modalità, ma poi l’allarme gli aveva offerto un’occasione insperata e perfetta…
L’avvocato non diceva la verità, sostenne il genero, che per la prima volta perdeva la sua espressione di gelido autocontrollo. Era stato lui a rapire il bambino, approfittando della confusione che si era creata, l’iniziativa era partita da lui.
I due uomini, era evidente, si assumevano la colpa per scagionare la donna. Ma nessuno dei tre avrebbe subito alcuna condanna se Antonio e Rosa non avessero reso testimonianza contro di loro.
I carabinieri fecero presente ai genitori questa cosa, e li invitarono a seguirli per registrare il verbale.
Rosa guardò la donna, curva sulla sedia, disfatta dalle lacrime, e suo padre, con la testa tra le mani. Provò una grande tristezza per loro, soprattutto quando vide che il marito della donna si era allontanato da lei, e non si lasciava abbracciare, di nuovo chiuso nel suo contegno impassibile. Gli ufficiali li separarono, e li portarono nelle stanze attigue.
Antonio e Rosa si trovarono di fronte al Carabiniere che chiedeva loro di raccontare con precisione tutta la storia dall’inizio. Si sentì un pianto debole e straziante da una delle stanze vicine. Rosa impallidì, osservò il marito, che stava raccontando tutto dall’inizio, e lo fermò.
<<Brigadiè…>> - disse - << Lasciate stare…>>
<<Come, signora, non li volete denunciare?>>
<<Non Vi preoccupate… l’importante è o’ criaturo… Sta bene, sta con me, non mi interessa più niente…>>
<<Ma come… Rosa? Che stai dicendo?>> intervenne Antonio
<< Per piacere, dai retta a me… mi vuoi dare retta?>> e gli mise Carmine in braccio. Antonio strinse suo figlio al petto, e d’improvviso tutto il resto gli sembrò superfluo. Si fidò della moglie, e del resto, era troppo scosso da tutto quello che era successo per reagire in modo diverso. Sapeva solo che aveva ritrovato suo figlio, e questo gli bastava.
Il Carabiniere alzò le mani.
<<Se vi sta bene così, io non Vi posso dire niente. Potete andare. E tanti auguri p’o piccerillo!>>
E tornarono a casa, in fretta. Nel vicolo li stavano aspettando tutti fuori dalle porte. Nessuno aveva dormito. La vicina che si era occupata di Nunzia, dopo aver messo a letto la bambina, aveva diffuso la buona notizia. Una folla impaziente li aspettava, e non appena li videro, fecero festa insieme a loro.
Antonio e Rosa dispensarono sorrisi e buone parole, ma pregarono anche di essere lasciati soli. Era stata una notte lunga e insonne, avevano bisogno di dormire. Senz’altro la loro preghiera fu ascoltata, e in un attimo tutti si ritirarono nelle loro case. In fondo, anche loro sentivano la stanchezza della notte in bianco. Preferirono non svegliare un’altra volta Nunzia, e farla dormire tranquilla fino alla mattina. Le prime luci dell’alba invasero la città proprio quando i due rientrarono nella loro stanza da letto. La pioggia si era calmata
<<E allora?>> - Chiese Antonio, una volta in casa. - << Perché?>>
Lo aveva chiesto senza rabbia, senza rancore. Sicuramente la moglie aveva avuto una buona ragione per risparmiare la prigione a quei tre, ma francamente era curioso di sapere cosa l’aveva spinta a fare quello che aveva fatto.
Rosa glielo spiegò: aveva avuto pena della figlia dell’avvocato, che si era abbassata a rubare il figlio di altri perché non poteva averne lei. Come era possibile farle ancora più male? Chi ne avrebbe avuto il coraggio? Non lei.
<<’Na femmena senza figlie… già sconta ‘a pena soja…>> concluse, con calma, continuando a cullare Carmine, che intanto, tra le braccia note della mamma, si era addormentato sereno.
Antonio le diede un bacio e la guardò con occhi che sprigionavano amore infinito. Quella donna trovava sempre il modo di stupirlo. E non fu mai così fiero di averla sposata.
La storia di Carmine fece il giro della città. In una tale girandola di orrori finalmente si sentiva qualcosa di bello, che faceva gioire gli animi. Molti “colorirono” un po’ i fatti. Si disse che era stato rubato dai Tedeschi, che lo avevano visto e avevano pensato che fosse un bambino troppo bello per vivere in mezzo alla miseria. Altri ancora dissero che gli Angeli lo avevano preso perché lo avevano scambiato per uno di loro. Qualcuno estrapolò anche dei numeri da giocare al lotto: 2, 63 e 79, vale a dire il bambino, la cesta e il ladro. Quella settimana di numero non ne uscì neanche uno ma in compenso nacque un’altra leggenda urbana.







Anna Zarlenga

2 commenti:

  1. Ciao Anna!
    Hai scritto un racconto molto bello e toccante. sono rimasta colpita dalla sensibilità della madre del bambino nei confronti di una donna che non potrà mai stringere un proprio figlio tra le braccia.
    scrivi molto bene e le tue descrizioni bucano le pagine, oggigiorno è cosa rara, credimi!

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    1. Grazie Milena, questo racconto è di tanti anni fa, purtroppo mi sa che ho perso lo smalto, quello era il mio periodo d'oro. Spero di ritrovare un giorno la giusta ispirazione. Sto scrivendo ancora, ma non so se troverò mai il coraggio di ripropormi, per il momento mi godo la lettura di ottimi scrittori ;-)

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